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American Anarchist

Alzi la mano chi non sa niente della strage di Columbine.

Se è così potete anche accomodarvi in fondo all’uscita, non farvi più vedere e essere destinati all’oblio. Chi invece vive nel proprio tempo sa perfettamente di cosa parlo. Due ragazzi entrano in una scuola e fanno una strage. E il bombarolo di Oklahoma City che fece crollare un palazzo intero? E quello che, durante la proiezione di “Batman” entrò nel cinema per sparare all’impazzata sugli spettatori?

Vicende terrificanti, ma con un filo comune a legarle: gli assassini possedevano tutti una copia di “The Anarchist Cookbook”, un manuale dove è possibile consultare delle pratiche ricette per costruire un fucile Uzi con le lattine di birra o fabbricare la nitroglicerina in casa oppure far saltare in aria un ufficio governativo in soli 10 minuti.

Siskel – uno che s’è posto sempre un paio di domande in più di tanti altri  – ha deciso di andare al cuore del problema intervistando l’autore di questo testo rivoluzionario (nel senso reale del termine) e ci si trova di fronte a William Powell.

Riservato e vero gentleman per definizione, quest’uomo di ormai 65, senza alcuna paura e con un dignità davvero molto rara, spiega le ragioni che l’hanno spinto a scrivere, nel 1970 e a soli 19 anni, un testo così controverso, usando una retorica che lui spacciava per ‘rivoluzionaria’ ma che oggi definiremmo solo pomposa e addirittura reazionaria. Tormentato dalla sua stessa creazione (che lui stesso definisce ‘un compagno con cui dover convivere fino alla morte’) e con un fardello di rimorso per aver fornito spunti ai vari pazzoidi che impestano il mondo, ha lasciato gli Stati Uniti per dedicarsi ad una vita itinerante come insegnante di ragazzi abusati, con difficoltà di apprendimento e – ironia della sorte –  che sono ricorsi alla violenza usando proprio il suo libro.

Charlie Siskel decide di abbracciare una visione d’insieme partendo con un’analisi molto accurata degli anni della Controcultura americana degli anni ’70 per poi guidare la narrazione sulla vita di Powell prima e dopo la pubblicazione e lo fa prediligendo la forma d’una lunga intervista all’autore, alternata ad immagini di repertorio.

Viene fuori così l’immagine d’una persona che sente di avere indubbie responsabilità per aver scritto qualcosa di assolutamente pericoloso, ma rifiuta con decisione di chiamarsi in causa riguardo all’interpretazione ‘sbagliata’ del libro e più che incaponirsi sulla damnatio aeterna del protagonista, Siskel fornisce lo spunto per un’accurata riflessione su ciò che siamo in quanto umani, sugli errori commessi in gioventù, sugli scheletri che ciascuno di noi tiene nel proprio armadio (alcuni anche fuori da esso, purtroppo), ma soprattutto sull’importanza d’una società che si fondi su una logica di inclusione per non lasciare indietro nessuno.

Più di una volta infatti Powell, alla domanda “Perché hai scritto una cosa del genere?” risponde: “Mi sentivo uno straniero in patria, non facevo parte di nessuno dei miei due mondi, ero solo, la scuola non mi capiva ed ero terribilmente ARRABBIATO con tutti per questo.”

Siskel– già regista dell’eccelso “Finding Vivian Mayer” – col suo occhio acuto eppure sempre tanto sensibile e attento a cose che altrimenti resterebbero invisibili, è una delle pregevoli e fortunate conferme di questa 73 edizione della Mostra di Venezia.

Da vedere, seriamente, se avete bisogno di fare pace col mondo.