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The Insult

Nell’odierna Beirut Yasser, un profugo palestinese, tenta di riaggiustare un tubo di scarico nella casa di Toni, libanese cristiano. Toni rifiuta con malagrazia il gesto di cortesia dicendo che non ha bisogno di niente e rovina di proposito il lavoro dell’ingegnere. Yasser si sente ferito e lo insulta. Toni vuole le scuse e quando vede che l’altro non è disposto a collaborare, lo insulta a sua volta e poi lo trascina in tribunale. Il caso produce un effetto-valanga di dimensioni bibliche e il delirio mediatico che ne consegue trascina il Paese sull’orlo della guerra civile.

Non starò ad ammorbarvi inutilmente con i dettagli tecnici. Il film è ben girato, fa abbondante uso della steady cam che stringe continuamente sui visi degli attori, i bravissimi Adel Karam (Toni) e Kamel El Basha (Yasser).

Attualmente in concorso a Venezia74, “The Insult” è un film che risulta fondamentale per una ragione sola (e non è poco): in un momento storico in cui il mondo si sta sgretolando sotto i colpi d’un nazionalismo becero, populista e meramente pretestuoso poiché volto a difendere gli interessi di pochi, il punto importante è sospendere il giudizio per un momento e volgere piuttosto lo sguardo a un’analisi accurata del passato.

Questo non per capire a chi accollare responsabilità e colpe rimaste perlopiù ancora impunite (nonostante nel film venga esplicitato formalmente che ‘la storia la fanno sempre e comunque i vincitori’), quanto per capire che le radici dell’odio sono profonde e partono da molto lontano e anche un piccolissimo incidente può provocare, con effetto valanga, un disastro di dimensioni inimmaginabili.

L’ottimo lavoro di sceneggiatura fatto dal regista Doueiri e dalla sua ex moglie e collaboratrice Joelle Touma (provenienti – esattamente come nel film – da due background culturali differenti che hanno permesso una scrittura ‘separata’ negli argomenti e nelle situazioni e che è stata poi integrata) mostra un approfondimento notevole degli archi narrativi dei personaggi e delle loro storie, soprattutto di quella di Toni.

Il personaggio del libanese cristiano rappresenta molto bene il profilo medio del populista ignorante, la cui ‘pancia’ è ormai da tempo avvelenata da discorsi patriottici e nazionalisti assorbiti  dal continuo fruire di tv di regime. Toni ha un passato di sofferenze da lui volutamente poste in fondo al cassetto della propria anima e di cui non ha mai voluto parlare, per puro orgoglio o per mera e giustificabile dimenticanza e l’unico modo per andare avanti senza crollare è quello di dar la colpa a qualcuno, chiunque esso sia, purchè sia in linea col profilo del ‘nemico palestinese’ che è sempre quello che si insidia di notte e di nascosto, piagnucola, fugge da un posto per occuparne un altro, sporca, truffa e ruba i posti di lavoro altrui (…Vi ricorda qualcosa, eh?! Si, anche a me.)

La sua controparte, il palestinese Yasser, dal canto suo è abituato a sentirsi fuoriposto continuamente e, nella lite, la parte che di lui subisce lo smacco più pesante è in primo luogo quella identitaria (per questo è importante capire il concetto che ‘le parole cambiano il mondo’), ma anche quella che ha sudato sempre un riscatto – professionale e sociale – strappato con le unghie e con i denti proprio per sfuggire ad uno stereotipo e ad un passato di cui non va fiero.

Sullo sfondo un Libano complicato e confuso, ufficialmente riappacificato nel 1990 dopo una guerra civile durata 15 anni e che sembra poi essere caduto in uno stato di amnesia in cui nessuno vuole ricordare niente. “The Insult” è il modo che il regista Doueiri usa per fare il punto della situazione in un paese pieno di differenze culturali ancora mal gestite e ferite mai rimarginate con la volontà di guardare ad un futuro dove non si fugge più, ci si guarda negli occhi, si ha il coraggio di chiedere scusa e di perdonare.

Film stupendo, che spero trovi distribuzione nella sale italiane.

 

Nota personale: siamo sfiduciati da quanto l’intolleranza e l’ignoranza regnino ormai ovunque e la scusa ufficiale e strumentale è sempre quella che “la gente è stanca”. Personalmente non ho idea di cosa voglia dire (se siete stanchi, beh, riposatevi), ma film come questo contribuiscono a porre l’accento sul fatto che le parole hanno il loro peso specifico, sempre, anche quando sui social network sembrano troppo volatili per loro importanza.

The Shape of Water

Nel 1962, in un’America intrappolata nella Guerra Fredda, Elisa Esposito fa tutto quello che deve fare, come sempre: dorme sul divano poi si sveglia, si masturba nella vasca da bagno, prepara le sue uova per colazione poi saluta il vicino di casa, va al lavoro in tram, timbra il cartellino presso un laboratorio governativo di massima sicurezza e si mette a fare le pulizie. La sua è una vita estremamente tranquilla e ripetitiva ma, nonostante il suo mutismo la costringa in un bozzolo di isolamento e silenzio, Elisa è piena di fantasia e trova comunque il modo di comunicare. Ma tutto questo cambia inevitabilmente quando lei e la sua amica Zelda scoprono per caso la misteriosa creatura celata dietro un esperimento supersegreto.
(…So cosa state pensando, non c’è bisogno che ghignate in quella maniera. E’ la ruggine, vero? Tutta questa ruggine che vedete attorno. Beh, non ho scritto più molto perché ho avuto molto da fare. Però adesso vi sto recensendo in anteprima l’ultimo film di Guillermo Del Toro. Cercate di dimostrare un po’ di gratitudine.)
Dunque. Forse non vi ho mai parlato della mia fascinazione per l’horror e le cose strane, morbose e molto sanguinolente. Oppure si, ma non importa. Quello che conta è che anche Del Toro da piccolo ha subito un qualche trauma infantile – esattamente come me – ricavandone però poi la capacità di girare fiabeschi e disturbanti capolavori del disgusto e dello spavento: pensiamo un attimo a “Mimic” (1997), “La spina del Diavolo” (2001), il robottoso “Pacific Rim” (2013) e il famosissimo “Il Labirinto del Fauno” (2006) la cui memorabile scena delle dita spaccate non mi fece dormire per due giorni.
Il suo ultimo lavoro, portato quest’anno in concorso alla Mostra di Venezia è “The Shape of water”.

Citando una delle tante cose dette dallo stesso regista in sede di conferenza stampa: “Ci sono due versione de ‘La Bella e la Bestia’. La prima è quella puritana dove viene esaltato l’amore platonico. Io ho preferito farne una versione dove si dà molto più spazio alle passioni umane e alla sessualità, alla scoperta del corpo proprio e dell’altro.”
E’ vero. “The Shape of water” è prima di tutto un trionfo di fisicità umana ed ‘aliena’ intesi non solo come fusione sessuale ma soprattutto come esplorazione e universale voglia di conoscenza. Per questo ci si innamora subito del personaggio di Elisa Esposito. Lei – nel suo mondo – è un freak e proprio per questa ragione (o forse la è il suo disperato attaccamento alla vita) è l’unica a non avere paura di un altro mostro.
Dall’altra parte, La Creatura (che nel film rimane volutamente senza nome) è il simulacro assoluto della diversità: per l’Occidente è una cosa disgustosa da studiare e poi distruggere, mentre in Amazzonia essa era rispettata, temuta e venerata come una divinità. Quella di Del Toro è una vera favola ambientata negli anni 60 usata come antidoto contro l’attuale deriva trumpista. Il regista è messicano, quindi è facilmente deducibile perché abbia il dente così avvelenato con un Presidente che intende includere nel suo privèè razzista, classista e sessista solo una certa parte di mondo, per sfruttare e poi scacciare via tutto quello che non è convenzionale e, in merito a ciò, illuminanti sono le parole che ad un certo punto mette in bocca ad Elisa: “Noi siamo niente, se non facciamo niente”.
Quello che è emozionante è la cura per ogni genere di dettaglio, poiché per il regista: “anche luci, interni e colori per me fanno parte dello storytelling”. La scrittura è finemente elaborata, capace di rendere ogni sfaccettatura dei personaggi, resi credibili dalle biografie di essi che Del Toro ha steso prima di buttarsi in una sceneggiatura. L’impatto visivo è forte, partendo soprattutto dalla scelta della palette dei colori che rispecchiano profondamente il background emotivo dei personaggi e il loro evolversi in rapporto con la Creatura. Il colore è ciò che sentiamo e viviamo. Per questo il rosso comincia ad essere visibile solo quando Elisa si innamora mentre un’ampia gamma di blu e di verdi comunica la presenza costante dell’acqua, ovunque e in ogni forma, non-luogo dove tutto comincia e finisce e che non ha forma, eppure, in qualche modo è scenario di vita.

Non ho più bisogno di dire molto riguardo al film, ma mi sento profondamente e intimamente felice pensando a queste parole di Del Toro: “Se il reale fa schifo, l’ultraterreno può aiutarci a conservare quello che di buono è rimasto e a tirarlo fuori per salvarci.”

Film superconsigliato, non c’è nemmeno bisogno che ve lo dica.

Stay tuned.

One more time with Feeling

Dev’essere davvero difficile fare un documentario su Nick Cave senza approcciare l’artista come se fosse una sorta di nuovo Cristo sceso in Terra. Questo è stato lo sbaglio compiuto, a mio avviso, da “20.000 Days on earth” del duo Fordsyth- Pollard. Troppo celebrativo, anche perché chi conosce bene questo incredibile artista, sa perfettamente quanto abbia influito la di lui arte sul mondo intero senza bisogno di pompose parate.

Proprio per questo chi lo ama davvero, chi ha speso la propria adolescenza consumando “Murder Ballads”, chi si è spremuto le cervella sui perché e i percome della sua relazione distruttiva con PJ Harvey (ancora devo farmene una ragione, ahimè, nemmeno fossero Woody Allen e Diane Keaton); non può non vedere il nuovo documentario di Andrew Dominik.

Pensato inizialmente dallo stesso Cave come la ripresa di una performance per promuovere il prossimo disco in uscita con lo storico gruppo The Bad Seeds (la collaborazione fra il regista e il cantante risale al 2007 con “The Assassination of Jesse James by the coward Robert Ford”), “One more time with Feeling” è senz’altro un prodotto di altissima qualità.

Pensato fin dall’inizio per essere girato in 3D, la macchina da presa si muove con grazia fra i musicisti esaltando le bellissime canzoni e la struggente interpretazione di Cave, la cui poetica è esaltata da una fotografia eccellente ad opera di Alwin Kulcher e Benoit Debie e da un uso sapientemente drammatico del bianco e nero.

Esteticamente è quindi quello che io, a livello tecnico, concepisco come “capolavoro” senza inutili narcisismi di sorta a rovinarne l’incredibile estetica.

Ma non mi credereste se dicessi che, purtroppo o per fortuna, tutto questo risulta la parte meno “interessante” del lungometraggio. Perché effettivamente in “One more time with feeling”, la musica diventa lo strumento per permettere ad un uomo distrutto di poter parlare del momento di blocco totale della sua vita.

 “Non credo più nella narrazione lineare” confessa Cave, quando gli si fa notare che i suoi testi sono molto più evanescenti d’un tempo. “Non credo più nelle storie che iniziano e hanno una fine, tutto svanisce, tutto dura un solo momento.”

E’ vero: i testi del nuovo disco sono perlopiù una raccolta di immagini evocative d’un qualcosa che non c’è più, estremamente malinconici e la musica si fa sempre meno melodica e molto più ipnotica; così bello che viene voglia di comprarlo immediatamente.

Ma è quando Cave comincia a parlare del cumulo di macerie che rappresenta ciò che resta della sua famiglia e di come tutto questo abbia influito ovviamente sul lato artistico, che il cuore dello spettatore comincia a mancare i battiti.

All’ombra della tragica morte dell’amatissimo figlio Arthur, caduto il 14 luglio 2015 da una scogliera di 18 metri a Brighton, il cantante si trova a dover parlare di tutto questo e lo fa con una dignità minimale da brividi, davvero molto rara. “Non va bene, ma deve andare bene per forza” confessa dinanzi alla macchina da presa con sguardo vuoto “Io e la mia famiglia abbia scelto di essere felici nonostante tutto e tutto questo ci fa sentire in colpa, perché sembra una vendetta. La felicità è la miglior forma di vendetta possibile”.

Un’intensità che lascia davvero senza fiato, soprattutto quando la moglie Susie mostra alla camera un disegno fatto da Arthur anni prima in cui viene fatalmente ritratto il luogo dove poi il ragazzo morirà (prova evidente del fatto che il destino è una puttana con un brutto senso dell’umorismo).

La difficoltà dell’accettazione, la scelta di andare avanti, la consapevolezza estrema d’un posto che resterà sempre vuoto: tutto questo è “One More Time with Feeling”.

Chi vuole bene a quest’uomo non può perdersi questo gioiello vero che io spero davvero esca al cinema il più presto possibile.

Per quanto mi riguarda adesso mi trovo in sala stampa a -20° (l’aria condizionata funziona BENISSIMO, devo dire) ed è davvero difficile riuscire a nascondere i miei occhi lucidi al mio vicino di posto che pure mi sente tirare su col naso da circa 15 minuti e cioè dal momento stesso in cui mi è tornato in mente che, nei titoli di coda, parte una versione acustica di “Deep Water” suonata da Cave e si sente distintamente la voce di Arthur limpida cantare e riempire tutto lo spazio e io non so – non lo so più – come deve finire questa recensione.

Indivisibili

Ci sono due ragazze sul palco, vicine. Sono bellissime e molto talentuose: si guadagnano da vivere cantando ai matrimoni e alle (improbabili) feste di compleanno. Desy è quella più smaliziata, Viola invece si nasconde di più.

“Indivisibili” è il loro cavallo di battaglia per cui vengono letteralmente osannate dal pubblico locale.

Indivisibile però è anche la loro condizione. Perché sono gemelle siamesi. Se una mangia, l’altra sente dolore alla pancia. Se una si masturba, l’altra prova piacere. E’ una simbiosi costretta, ma le ragazze sono riuscite coraggiosamente a crearsi la propria dimensione.

Tutto cambia quando un chirurgo gli dice che in realtà c’è la possibilità di separarle con un’operazione che permetterebbe loro di alzare notevolmente la qualità della vita.

In quel preciso momento, quando tutta la verità è illuminata, il ridicolo e degradante circo in cui le ragazze sono vissute si sfalda sotto i loro occhi, perché tutto può, finalmente, cambiare.

Mi sono dovuta prendere un giorno di tempo, respirare un po’, vedere altri film e dormirci su; altrimenti non sarei riuscita a recensire questo film. Da un (bel) po’ di tempo si parla di “nuovo cinema italiano”: lo faccio anche io, evitando di spendere i soliti grandi nomi. I successi di Gabriele Mainetti e Matteo Rovere hanno fatto ben sperare in una nuova ventata di freschezza riconducibile soprattutto ad un nuovo sguardo e ad una nuova concezione del fare cinema dove contano sicuramente più le idee valide ed originali coadiuvate dalla buonissima scrittura (in questo caso, di Nicola Guaglianone). Con vero piacere posso dire che Edoardo De Angelis – già regista di “Mozzarella Stories” e del più recente “Perez”, presentato a Venezia 2 anni fa – entra di sforbiciata in questo nuovo, ancora piccolo ma prolifico, Olimpo.

Impossibile non cogliere il riferimento a “Freaks” di Tod Browning dove le gemelle Violet e Daisy Hilton erano realmente siamesi unite per fianchi e glutei; ma l’assoluta indipendenza del film sta nel riuscire a raccontare una storia di “mostri” inserendola in una contesto contemporaneo italiano. Sullo sfondo infatti c’è il degrado umano e ambientale del litorale domiziano e un contesto familiare completamente sfasciato – una madre assente che si prende tutta la colpa (una Antonia Truppo convincente più che mai) e un padre che sfrutta la mostruosità delle figlie per alzare soldi – non permette, almeno formalmente, alle ragazze di strutturare una loro indipendenza nonostante siano loro a dover tenere il peso, seppur col sorriso, della condizione.

Eppure. La forza assoluta del film sta nel descrivere con struggente e singolare profondità, la loro volontà di vivere ben oltre l’handicap e smarcarsi da una condizione che sembra addirittura “privilegiata” per ambire ad una normalità solo sognata.

I mostri altro non vogliono che essere normali e prova ne è il dialogo, pregno di struggente consapevolezza della loro condizione, fra le due sorelle:

“…Vabbè, ma se io voglio uscire con un ragazzo, che fai, ci stai pure tu?”

“…Embè?! Io non vi sento, mi metto le cuffiette”

Ottima la prova della esordienti Marianna e Angela Fontana che riescono a prestare ottimamente il corpo e il volto al martirio fisico con una forza interpretativa che raramente è riscontrabile in altre attrici italiane già a lungo ‘navigate’ (chi mi conosce sa a chi mi sto riferendo).

PNP: Piccola Nota Polemica:  allo stato attuale, per la sottoscritta, è il miglior film della 73 Mostra di Venezia (mi è successo anche l’anno scorso con Caligari: se ci lascio il cuore, per me è gia fatta). Non riesco a comprendere per quale ragione non sia stato inserito in concorso, ma relegato solo nel recinto delle “Giornate degli Autori”, permettendo invece a quell’inutilità di “Spira Mirabilis” di gareggiare (quando il pubblico esce in massa dalla sala, urlando e cavandosi gli occhi FORSE non è buon segno, ma a quanto pare la velleità conta più di tutto il resto). Perché il cinema italiano dev’è essere per forza scemenza artistoide, commediuola per famiglie o film dai nomi importanti? Per fortuna che le cose stanno cambiando, davvero, nonostante il meccanismo di produzione di storie nuove e fresche sia ancora molto bloccato. Ok, fine del pippotto.

Comunque “Indivisibili”, mi dicono dalla regia, dovrebbe uscire il 29 settembre in sala. Andateci. Reperite anche il prima possibile la colonna sonora, ad opera di Enzo Avitabile.

Fate tutto quello che potete per godere appieno di questo gioiellino.

 

 

 

Nocturnal Animals

Susan Morrow ha tutto quello che una donna potrebbe desiderare. Una vita lussuosa a Los Angeles, col suo esaltante lavoro da mercante d’arte e il suo fascinosissimo marito Hutton.

“Cos’è quello sguardo sempre triste, allora, Susan? Quel gelo, quella distanza costante dal mondo?”

Tutto è immobile, tutto quello che la circonda è pura pietra senza vita, senza calore e senza sussulti. Per questo la donna rimane molto colpita quando le viene recapitato un misterioso pacco da parte del suo ex marito Edward Sheffield. E’ il romanzo che lui è riuscito a scrivere in circa vent’anni dopo essersi separati, si intitola “Nocturnal Animals” ed è dedicato completamente a lei. In un biglietto gentile lui esorta la donna a leggere il libro e a chiamarlo durante la sia visita in città…

…Ma il libro si rivela una escalation di brutale violenza che la costringe a ripercorrere i momenti più importanti della loro storia – risalente ai tempi dell’università – e a guardarsi finalmente dentro dopo tanto tempo rivalutando le scelte fatte e, tornare in qualche modo a ‘sentire’ qualcosa.

Perché, si sa, nulla più della vendetta fa sentire vivi.

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American Anarchist

Alzi la mano chi non sa niente della strage di Columbine.

Se è così potete anche accomodarvi in fondo all’uscita, non farvi più vedere e essere destinati all’oblio. Chi invece vive nel proprio tempo sa perfettamente di cosa parlo. Due ragazzi entrano in una scuola e fanno una strage. E il bombarolo di Oklahoma City che fece crollare un palazzo intero? E quello che, durante la proiezione di “Batman” entrò nel cinema per sparare all’impazzata sugli spettatori?

Vicende terrificanti, ma con un filo comune a legarle: gli assassini possedevano tutti una copia di “The Anarchist Cookbook”, un manuale dove è possibile consultare delle pratiche ricette per costruire un fucile Uzi con le lattine di birra o fabbricare la nitroglicerina in casa oppure far saltare in aria un ufficio governativo in soli 10 minuti.

Siskel – uno che s’è posto sempre un paio di domande in più di tanti altri  – ha deciso di andare al cuore del problema intervistando l’autore di questo testo rivoluzionario (nel senso reale del termine) e ci si trova di fronte a William Powell.

Riservato e vero gentleman per definizione, quest’uomo di ormai 65, senza alcuna paura e con un dignità davvero molto rara, spiega le ragioni che l’hanno spinto a scrivere, nel 1970 e a soli 19 anni, un testo così controverso, usando una retorica che lui spacciava per ‘rivoluzionaria’ ma che oggi definiremmo solo pomposa e addirittura reazionaria. Tormentato dalla sua stessa creazione (che lui stesso definisce ‘un compagno con cui dover convivere fino alla morte’) e con un fardello di rimorso per aver fornito spunti ai vari pazzoidi che impestano il mondo, ha lasciato gli Stati Uniti per dedicarsi ad una vita itinerante come insegnante di ragazzi abusati, con difficoltà di apprendimento e – ironia della sorte –  che sono ricorsi alla violenza usando proprio il suo libro.

Charlie Siskel decide di abbracciare una visione d’insieme partendo con un’analisi molto accurata degli anni della Controcultura americana degli anni ’70 per poi guidare la narrazione sulla vita di Powell prima e dopo la pubblicazione e lo fa prediligendo la forma d’una lunga intervista all’autore, alternata ad immagini di repertorio.

Viene fuori così l’immagine d’una persona che sente di avere indubbie responsabilità per aver scritto qualcosa di assolutamente pericoloso, ma rifiuta con decisione di chiamarsi in causa riguardo all’interpretazione ‘sbagliata’ del libro e più che incaponirsi sulla damnatio aeterna del protagonista, Siskel fornisce lo spunto per un’accurata riflessione su ciò che siamo in quanto umani, sugli errori commessi in gioventù, sugli scheletri che ciascuno di noi tiene nel proprio armadio (alcuni anche fuori da esso, purtroppo), ma soprattutto sull’importanza d’una società che si fondi su una logica di inclusione per non lasciare indietro nessuno.

Più di una volta infatti Powell, alla domanda “Perché hai scritto una cosa del genere?” risponde: “Mi sentivo uno straniero in patria, non facevo parte di nessuno dei miei due mondi, ero solo, la scuola non mi capiva ed ero terribilmente ARRABBIATO con tutti per questo.”

Siskel– già regista dell’eccelso “Finding Vivian Mayer” – col suo occhio acuto eppure sempre tanto sensibile e attento a cose che altrimenti resterebbero invisibili, è una delle pregevoli e fortunate conferme di questa 73 edizione della Mostra di Venezia.

Da vedere, seriamente, se avete bisogno di fare pace col mondo.

Prevenge

Una donna inglese scopre di essere incinta del suo compagno il giorno stesso in cui lui muore per un incidente. Potrebbe essere l’incipit per quel film hollywoodiano che avete propinato al vostro ragazzo lo scorso sabato sera e che lui ha accolto a sonore russate, ma di sicuro non è così. Ruth non ha alcuna intenzione di scodellare questa creatura piangendosi addosso.
Quindi si alza dal divano, si sistema i capelli e va a fare una carneficina di tutti quelli che, secondo lei, sono responsabili della morte del suo fidanzato e a pilotare la sua sete di vendetta non è affatto lei né quelli che ha intorno bensì l’angelica creaturina che porta in grembo che, sussurrandole Kill’em all, la spinge a saziare la sua sete di sangue e di giustizia, non senza risvolti comici e abbastanza slasher.

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Mustang

Cosa c’é di male se 5 – bellissime – ragazzine vengono sorprese a divertirsi combattendo in acqua a cavalcioni sulle spalle di 5 ragazzi coetanei?

Niente.

Solo che non si fa. Non si può e basta.

Ed esattamente come esiste un ‘prima’, fatto di spensieratezza e di un vissuto prestato perlopiú a ciò che si sogna quando si é pre-adolescenti, purtroppo c’é anche un fatidico dopo dove accade di tutto per riparare l’onta e proteggersi dalla vergogna.

DEVE accadere quello che ci si aspetta dalle femmine che vivono nella provincia turca.

Come si zittisce tutta questa fame di vita, l’esigenza di scoprire il corpo proprio e quello altrui, la volontá assoluta di autodeterminarsi nonostante le rigide regole sociali basate sul patriarcato? Col matrimonio.

Si consegna la vitalitá di queste 5 giovani donne a uomini voluti o indesiderati, ben noti o perfetti sconosciuti, arruolati nell’esercito o disoccupati. Tutto va bene, tutto fa brodo purché esse trovino una sistemazione onorabile e portino in dote una verginitá autentica che possa rendere loro indietro una buona reputazione, per loro e per la famiglia.

A raccontare la vicenda sono gli occhi di Lale, la più piccola delle 5 sorelle che, non solo é l’unica ad accorgersi da subito di quello che accadrá nell’immediato (meravigliosa la spontaneitá dell’incipit: “Stavamo bene, poi siamo finite nella merda”) ma é l’unica – paradossalmente – a restare immune a questa assurda ‘visione’ delle cose. Perché le altre sorelle sono perlopiù rassegnate, in modi diversi, al loro destino di donne, mentre lei pensa già ad andarsi a prendere tutto il mondo che c’é fuori e che ai suoi occhi equivale alla “liberissima” (…gulp, se ripenso al Golpe di questi giorni…) Istanbul.

La prima annotazione ai margini da fare su questo film è che risulta praticamente impossibile non pensare a “Il giardino delle vergini suicide”. Ma é un confronto che si basa unicamente sull’impianto narrativo e sulla scelta dei soggetti perché Deniz Gamze Ergüven riesce straordinariamente a dare vita “propria” e indipendente alle 5 protagoniste con una scrittura estremamente efficace e veritiera che ben definisce ogni loro piccolo universo.

Descritto con crudele realismo anche il mondo degli adulti: con lo zio che percepisce queste 5 nipoti come un peso e un rogna da sistemare al piú presto e una zia che, nonostante la buona volontá nel voler aiutare le 5 fanciulle a trovare la strada “giusta”, risulta essere ancora più reazionaria della realtá che la Turchia sta vivendo da diverso tempo a questa parte ovvero un paese radicato in un profondo patriarcato maschilista che strangola le donne.

Davvero, davvero bello.

 

The Revenant

Nel 1823, in Nord Dakota, l’accampamento di un gruppo di cacciatori di pelli viene attaccato da un gruppo di indiani Arikara. Solo in 12 sopravvivono e sono costretti a fuggire e nascondersi continuamente per fare ritorno al loro villaggio sani e salvi. Uno di loro, Hugh Glass, viene attaccato da una femmina di orso Grizzly, intenta a proteggere i figli e il territorio e…

…Aaaaah, non ho alcuna voglia di farvi un sunto ridicolo della trama di questo film, poichè sono sicura che già la sapete a memoria; compresa la scena dell’orso, sui cui qualcuno ha avuto anche il coraggio di fare ironia (invece di gettarsi in ginocchio e avere i volti rigati di lagrime di giuoia mistica) e dire che “AAHAHAHA, L’ORSA NON LO HA ATTACCATO!!11! L’ORSA SE LO E’ INCULATO!!!11! AHAHAHAHAHAHA!!!!”

Merde, infedeli e senza Dio.

Io e Mr Inarritu ci eravamo lasciati – in buonissimi rapporti – alla conferenza stampa di “Birdman” a Venezia. Lui tentava di rispondere alle domande sul film mentre un Michael Keaton – palesemente sotto l’effetto di sostanze sintetiche – smascellava.

Chiedetemi se gli voglio bene.  La risposta è: si, moltissimo, perché è un pazzo.

Solo a un pazzo verrebbe in mente di affrontare il gelido inverno canadese con tutta la sua troupe, far stare Leonardo di Caprio a mollo nel ghiaccio per circa, beh, QUASI UN ANNO e far raddoppiare il budget del film (da 60 milioni di dollari a inizio riprese, fino ad arrivare a 135) con quella nonchalance tipica di chi si specchia la mattina e sa di dover/poter pagare l’affitto dell’hangar in cui risiede il suo gigantesco ego.

E questo il motivo principale per cui la stragrande maggioranza della critica lo detesta e anche il suo peggior difetto, visibilissimo anche in questo film: la meticolosa e maniacale preparazione millimetrica dei dettagli, i fluidissimi (e vanitosi) long takes che, abbracciano il più possibile in pochi secondi. Poi la drammaticità un po’ forzata (“Non posso morire perchè sono già morto”  “La vendetta è solo nelle mani di Dio”), l’ambizione di voler girare tutto in ordine cronologico,lo spostamento obbligatorio in Argentina nella primavera del 2015 a causa delle rigide condizioni climatiche e il rifiuto categorico e perentorio di affidarsi in qualche modo al CGI.

Vi starete cercamente chiedendo se almeno la scena della valanga è reale.

No. Inarritu ha affittato un elicottero, è andato fin lassù e ha fatto saltare la slavina col tritolo nello stesso momento in cui Di Caprio dava la battuta.

Questo per farvi capire la persona.

Ovviamente non c’è neanche motivo che io vi parli di Lubezki e della sua allucinantemente bella fotografia tutta naturale che regala ogni sfumatura possibile dell’inverno nordamericano.

“…E allora di cosa, di grazia, vorresti parlarci, Valentina?!”

Cercherò di essere obbiettiva e vi dirò “The Revenant” altro non è che una (banale) storia di vendetta – quindi nulla di nuovo sotto al sole – piena di difetti e forse troppo lunga, pretenziosa, dispendiosa, con una forte critica verso il capitalismo becero (salari bassissimi per procurare le pelli con rischi altissimi trasformano le persone in veri e propri mercenari che venderebbero la madre al mercato nero per qualche dollaro in più) e un focus importante sulla questione dell’immigrazione (essere soli e completamente sperduti in un posto sconosciuto e con gente inospitale).

Ma se il cinema è fatto – non solo, ma anche – per immagini, con la ricerca del bello assoluto anche nelle più estreme condizioni di difficoltà; se le rughe di espressione di Leonardo di Caprio parlano più di qualsiasi altra cosa e tu soffri davvero e puoi essere lì e sentire l’odore del fegato animale che lui sta addentando; se Tom Hardy ci regala uno dei villain più STRONZI della storia del cinema (credetemi, è disturbante, ad una certa comincerete ad inveire contro il grande schermo lanciandogli contro i bicchieri di Sprite vuoti trovati sotto al sedile); se la Natura è la vera padrona della vita dell’Uomo e incanta e fa ammutolire e magari vi viene voglia di cambiare  la prenotazione del biglietto aereo delle ferie da Barcellona a, che ne so, un qualche posto sperduto in Alaska, beh, credo che dovreste provare a guardarlo.

Io sono convinta che – quello alla regia – sia uno degli Oscar più meritati di quest’ultima edizione e per me questo film è e rimane un capolavoro.

Ah, per la cronaca: Hugh Glass è esistito veramente. Era un trapper e una guida e divenne famoso per essere sopravvissuto all’attacco del grizzly e all’abbandono dei suoi compagni, che lo credevano in fin di vita. La leggenda vuole che abbia vagato per 320 chilometri, nella neve e nel ghiaccio, fino a Fort Kiowa nel South Dakota, senza viveri nè armi e completamente solo.

Anomalisa

“Michael Stone è un famosissimo scrittore di libri che insegnano come aumentare le potenzialità del customer service. Ha un lavoro che si potrebbe dire esaltante, ma la sua vita è in realtà una noia mortale fatta di cose sempre tutte uguali a sé stesse. Un giorno deve recarsi in USA per un viaggio di lavoro e, proprio lì, incontra un’estranea che cambia di colpo la sua visione del mondo.”

…Mi chiedo per quale ragione il catalogo della Mostra di Venezia fornisca una sinossi così…Beh, così…ASCIUTTA per cotanta bellezza, quando invece per quell’oscenità di Bellocchio hanno sprecato ben 18 righe in più per parlare del beneamato NIENTE. Ma ok. Non facciamo polemiche.

Domanda per voi: siete quel genere di persona che ha bisogno di sentirsi dire che le imperfezioni che si trascina dietro da sempre sono, in realtà, la fonte della propria bellezza? Anche voi sognate di sentirvi dire : “Ti prego, resta sempre così. Resta fuori dal coro. Conserva tutti i tuoi difetti, perchè io li amo più di tutto il resto. Conserva i lati difficili del tuo carattere perché io muoio per loro.” per poi svegliarvi invece nel vostro letto tutti soli, tremanti e sudati?

A me capita un mucchio di volte. E faccio spesso una fatica incredibile a descrivere questo stato di cose alle persone senza risultare melensa, inutilmente glicemica e lettrice accanita dei post di Selvaggia Lucarelli.

Anomalisa” invece, il nuovo capolavoro di animazione di Duke Johnson e Charlie Kaufman reso possibile solo grazie alla piattaforma di crowdfunding Kickstarter, riesce invece a compiere una magia: raccontare un argomento apparentemente ritrito come l’amore in una chiave scevra da picchi diabetici e con un uso estremamente realistico e mai macchiettistico o parodistico o sornione o ammiccante (e altri brutti aggettivi) della stop-motion, che qui non è “protagonista” ma è posta invece come strumento al servizio della narrazione della storia stessa.

Quello che potrebbe essere velocemente bollato come “cartone animato per bambini” – perché ci sono ancora furbacchioni che pensano che l’animazione è roba concepita unicamente per l’infanzia – è invece un fantastico racconto sull’attaccamento alla diversità scritto da quel geniaccio di Kaufman (quello che ha sceneggiato, per dire, “Being John Malkovich o Se mi lasci ti cancello) che ha riadattato il libro di Francis Fregoli (che a questo punto credo che non potrò esimermi dall’entrarne sl più presto in possesso).

Uno straordinario lavoro sulle voci compiuto dai protagonisti Jennifer Jason Leigh, David Thewlis e Tom Noonan contribuisce ad arricchire un quadro già ricco di cose meravigliose, il cui grande potere è quello di riuscire a parlare a tutti e per tutti. Perché chiunque di noi, almeno una volta nella vita, si è sentito “anomalo” e fuori posto e pure così ardentemente desideroso di essere scelto e amato proprio per quello, nonostante poi…Ma questa è un’altra storia.

Pochi film rendono così felici e pieni di reale speranza.

Segnatevelo. “Anomalisa” in lingua originale, al cinema, al più presto e ora in concorso alla 72esima Mostra del Cinema di Venezia. C’è da sperare che vinca, se non fosse per…Vabbè ve lo dico domani.